corso gratuito di economia politica

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    L’ECONOMIA POLITICA: OGGETTO E METODO



    DEFINIZIONI DELL’ECONOMIA POLITICA

    Argomento di studio della scienza economica è l’analisi del comportamento umano di fronte al problema di soddisfare bisogni individuali, potenzialmente illimitati e sempre nuovi, con risorse naturali limitate. L’economia è quindi lo studio del modo in cui si sceglie di utilizzare risorse produttive scarse, suscettibili di impieghi alternativi, per produrre vari tipi di beni.


    GLI STRUMENTI DI ANALISI

    Diagrammi cartesiani

    I diagrammi sono rappresentazioni schematiche delle relazioni intercorrenti fra due o più insiemi di dati o di variabili. La loro potenza scaturisce dal fatto che permettono di riunire in un piccolo spazio un grande numero di dati e di comprenderli facilmen-te.

    Pendenza ed elasticità

    La relazione quantitativa tra le due variabili rappresentata da una curva è data dalla sua pendenza (o coefficiente angolare), la quale è, per definizione, il “sollevamento fratto il percorso”, cioè le unità di incremento di y per ogni unità di incremento di x. La pendenza indica come le due variabili sono legate: se è positiva, la relazione fra le due variabili è diretta (o positiva o di concordanza), cioè esse sono o entrambe cre-scenti o entrambe decrescenti; se è negativa, la relazione fra le due variabili è inversa (o negativa o di discordanza), cioè esse sono o una crescente e l’altra decrescente o viceversa.

    L’elasticità denota la sensibilità di una variabile alle variazioni di un’altra variabile. Per esempio, l’elasticità di x rispetto ad y significa la variazione percentuale di x per ogni variazione di y pari all’1%


    Modelli economici

    I modelli economici sono schemi formali usati per rappresentare le caratteristiche ba-silari di un sistema complesso mediante un piccolo numero di relazioni essenziali. I modelli assumono la forma di diagrammi, equazioni matematiche o programmi di elaboratore.


    FRONTIERA DELLE POSSIBILITÀ DI PRODUZIONE E SUE APPLICAZIONI

    La frontiera delle possibilità di produzione è un diagramma che rappresenta l’insieme di beni che possono essere prodotti da un sistema economico. Indica cioè in quale misura un bene può venire trasformato nell’altro mediante il trasferimento di risorse dalla produzione del primo a quella del secondo. In un caso semplice citato frequentemente la scelta è ridotta a due beni, burro e cannoni. I punti all’esterno del-la frontiera delle possibilità di produzione sono irraggiungibili. I punti all’esterno sa-rebbero inefficienti poiché le risorse non vengono impiegate completamente, non vengono utilizzate correttamente, o vengono utilizzate tecniche produttive superate.
     
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    CITAZIONE (x2x @ 5/10/2011, 20:48) 

    L’ECONOMIA POLITICA: OGGETTO E METODO



    DEFINIZIONI DELL’ECONOMIA POLITICA

    Argomento di studio della scienza economica è l’analisi del comportamento umano di fronte al problema di soddisfare bisogni individuali, potenzialmente illimitati e sempre nuovi, con risorse naturali limitate. L’economia è quindi lo studio del modo in cui si sceglie di utilizzare risorse produttive scarse, suscettibili di impieghi alternativi, per produrre vari tipi di beni.


    GLI STRUMENTI DI ANALISI

    Diagrammi cartesiani

    I diagrammi sono rappresentazioni schematiche delle relazioni intercorrenti fra due o più insiemi di dati o di variabili. La loro potenza scaturisce dal fatto che permettono di riunire in un piccolo spazio un grande numero di dati e di comprenderli facilmen-te.

    Pendenza ed elasticità

    La relazione quantitativa tra le due variabili rappresentata da una curva è data dalla sua pendenza (o coefficiente angolare), la quale è, per definizione, il “sollevamento fratto il percorso”, cioè le unità di incremento di y per ogni unità di incremento di x. La pendenza indica come le due variabili sono legate: se è positiva, la relazione fra le due variabili è diretta (o positiva o di concordanza), cioè esse sono o entrambe cre-scenti o entrambe decrescenti; se è negativa, la relazione fra le due variabili è inversa (o negativa o di discordanza), cioè esse sono o una crescente e l’altra decrescente o viceversa.

    L’elasticità denota la sensibilità di una variabile alle variazioni di un’altra variabile. Per esempio, l’elasticità di x rispetto ad y significa la variazione percentuale di x per ogni variazione di y pari all’1%


    Modelli economici

    I modelli economici sono schemi formali usati per rappresentare le caratteristiche ba-silari di un sistema complesso mediante un piccolo numero di relazioni essenziali. I modelli assumono la forma di diagrammi, equazioni matematiche o programmi di elaboratore.


    FRONTIERA DELLE POSSIBILITÀ DI PRODUZIONE E SUE APPLICAZIONI

    La frontiera delle possibilità di produzione è un diagramma che rappresenta l’insieme di beni che possono essere prodotti da un sistema economico. Indica cioè in quale misura un bene può venire trasformato nell’altro mediante il trasferimento di risorse dalla produzione del primo a quella del secondo. In un caso semplice citato frequentemente la scelta è ridotta a due beni, burro e cannoni. I punti all’esterno del-la frontiera delle possibilità di produzione sono irraggiungibili. I punti all’esterno sa-rebbero inefficienti poiché le risorse non vengono impiegate completamente, non vengono utilizzate correttamente, o vengono utilizzate tecniche produttive superate.

    e qualcosa sulle varie teorie?
     
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    ecco le varie teorie:

    Fisiocrazia Scuola di economisti francesi del XVIII secolo. I fisiocratici erano guidati da François Quesnay, il cui Tableau économique (Quadro economico, 1758) costituì la base della loro dottrina; altri importanti fisiocratici furono Pierre-Samuel du Pont de Nemours (1739-1817) e Jean-Claude-Marie-Vincente de Gournay (1712-1759), al quale è attribuita la celebre frase laissez-faire, laissez passer, che esprime compiutamente la politica di non intervento dello stato nelle questioni economiche propugnata dai fisiocratici. Essi si opponevano alla prevalente dottrina del mercantilismo, che raccomandava di accumulare metalli preziosi per arricchire lo stato, anche mediante norme commerciali che evitassero l'esportazione di oro e argento. Sostenitori del diritto naturale, i fisiocratici asserivano invece che l'ordine naturale, cioè l'insieme di leggi create dalla natura, avrebbe spontaneamente prodotto una società prospera e che pertanto si doveva favorire il libero scambio. Essi sostenevano inoltre che solo l'agricoltura poteva produrre ricchezza, mentre il commercio e l'industria la facevano solo circolare, scontrandosi anche su questo punto con i mercantilisti, che individuavano nel commercio internazionale la fonte della prosperità di una nazione. I fisiocratici esercitarono una notevole influenza in Francia durante gli anni Settanta del Settecento, soprattutto quando Anne-Robert-Jacques Turgot, che si rifece alle loro teorie, fu nominato ministro delle Finanze e del Commercio. Le loro idee sull'economia di libero mercato ispirarono Adam Smith. Tuttavia, la loro visione dell'agricoltura venne rifiutata proprio da Smith, che elaborò la teoria del valore-lavoro, e dal suo discepolo David Ricardo.


    Adam Smith (Kirkcaldy 1723 - Edimburgo 1790), economista e filosofo scozzese. Il suo celebre trattato Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni fu il primo studio sistematico della natura del capitalismo e dello sviluppo storico dell'industria e del commercio tra le nazioni europee.
    Smith, che compì i propri studi nelle università di Glasgow e Oxford, tenne lezioni di retorica e letteratura a Edimburgo dal 1748 al 1751. In questo periodo, stabilì una stretta collaborazione con il filosofo David Hume, che durò fino alla morte di quest'ultimo nel 1776 e che contribuì notevolmente allo sviluppo delle teorie etiche ed economiche di Smith. Fu nominato professore di logica nel 1751 e professore di filosofia morale nel 1752 all'Università di Glasgow. Successivamente raccolse le sue lezioni di etica nella sua prima grande opera, Teoria dei sentimenti morali (1759). Smith conobbe molti dei principali esponenti della scuola dei fisiocratici del continente e fu particolarmente influenzato da François Quesnay e Anne-Robert-Jacques Turgot, dai quali trasse alcuni elementi che confluirono nella sua teoria. Dal 1766 lavorò alla Ricchezza delle nazioni: l'opera, pubblicata nel 1776, avrebbe segnato l'inizio della storia dell'economia come scienza autonoma. La Ricchezza delle nazioni rappresenta il primo serio tentativo nella storia del pensiero economico di separare l'economia politica dalle discipline connesse della teoria della politica, dell'etica e del diritto. Quest'opera è una penetrante analisi dei processi di produzione e distribuzione della ricchezza economica, e dimostra che le fonti principali di ogni reddito risiedono nel lavoro (quota dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione) e nel livello di produttività del lavoro.
    La tesi principale della Ricchezza delle nazioni è che il lavoro, e dunque il capitale che ne aumenta la produttività, viene impiegato nel migliore dei modi in condizioni di non interferenza pubblica e di libero scambio. Per spiegare questa tesi, Smith si servì della famosa metafora della "mano invisibile": ciascun individuo, nel perseguire il proprio tornaconto, è spinto, come da una mano invisibile, a operare per il bene di tutta la collettività. Ogni interferenza nella libera concorrenza da parte del governo è pertanto quasi sicuramente dannosa.


    David Ricardo (Londra 1772 - Gatcomb Park, Gloucestershire 1823), economista inglese. Figlio di un ricco agente di cambio, lasciò la scuola a 14 anni per collaborare col padre; a 45 anni aveva già accumulato una fortuna sufficiente ad abbandonare il lavoro e dedicarsi allo studio dell'economia. Durante gli ultimi quattro anni di vita Ricardo fu membro del Parlamento britannico. Nel suo primo lavoro sulla teoria economica, L'alto prezzo del metallo, prova del deprezzamento delle banconote (1809), sostenne la necessità della moneta basata sul metallo. Nella sua opera fondamentale, Principi dell'economia politica e delle imposte (1817), assegnò all'economia politica il compito di indagare le leggi che governano la distribuzione del prodotto dell'economia fra le classi che concorrono a produrlo (proprietari terrieri, capitalisti e lavoratori). Con questo intento Ricardo costruì un modello da cui risultava che alla lunga l'aumento della popolazione poteva portare a una penuria di terra coltivabile, poiché al crescere della popolazione corrispondeva la messa a coltura di terre sempre meno fertili; la sua teoria della rendita differenziale si basa appunto sul fatto che le terre più fertili e più produttive fruiscono di un differenziale positivo rispetto alle terre meno fertili, dato che i prodotti delle une e delle altre sono venduti allo stesso prezzo - che è quello necessario a coprire i più alti costi della terra meno produttiva, ma il cui prodotto è ancora necessario a soddisfare tutta la domanda del mercato, e cioè della "terra marginale" - ma nel caso delle terre più fertili sono ottenuti a un costo minore. Da questa visione pessimistica circa la sostenibilità della crescita Ricardo fu indotto a cercare soluzioni, anche se non definitive, nel commercio internazionale e nell'importazione di grano a buon mercato; perciò egli caldeggiò l'abolizione delle leggi sul grano, che a quel tempo proteggevano la produzione nazionale inglese mantenendone elevati i prezzi, e, più in generale, sviluppò la sua teoria del "vantaggio comparato" per dimostrare come la specializzazione nazionale nella produzione di particolari beni avrebbe arrecato benefici a tutti i paesi partecipanti al commercio. La sua teoria del valore-lavoro, che influenzò Karl Marx, afferma che i salari sono determinati dal prezzo degli alimenti, che dipende dal costo di produzione di questi ultimi, determinato a sua volta dalla quantità di lavoro richiesto per produrli; in ultima analisi è quindi il lavoro che determina il valore di tutte le merci. Ricardo ha dato un contributo rilevante anche nel campo della metodologia, servendosi di semplici modelli teorici per analizzare problemi economici e trarne conclusioni, un metodo, questo, divenuto poi lo strumento fondamentale della teoria economica.


    Karl Marx (Treviri 1818 - Londra 1883), filosofo, economista e pensatore politico tedesco, fondatore con Friedrich Engels del socialismo scientifico. Iniziati gli studi universitari a Bonn, nel 1836 Marx si trasferì all'Università di Berlino, dove conseguì il dottorato in filosofia nel 1841 con una dissertazione dal titolo: Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. Nel 1842 iniziò a collaborare con la "Rheinische Zeitung" (Gazzetta renana) di Colonia, della quale divenne in breve tempo caporedattore. I suoi articoli, incentrati sulla critica delle condizioni sociopolitiche dell'epoca, gli crearono problemi con le autorità prussiane: il giornale fu soppresso nel 1843. Marx si recò quindi a Parigi, dove stabilì contatti con i movimenti socialisti e si dedicò ai primi studi di economia politica. Nel 1844 incontrò Engels: entrambi si accorsero di essere pervenuti per strade differenti alla teorizzazione della necessità storica di una rivoluzione. Da quel momento Marx ed Engels collaborarono alla sistematizzazione dei principi teoretici del comunismo, oltre che all'organizzazione di un movimento operaio internazionale fondato su tali principi.
    Nei cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx utilizza gli strumenti della dialettica hegeliana per mettere a fuoco il tema del "lavoro alienato" nella società capitalistica. Se fino a questo periodo Marx appare vicino alla generazione dei filosofi della "sinistra hegeliana", in particolare a Ludwig Feuerbach, in seguito se ne distanzia per dare al suo pensiero un carattere più nettamente materialistico. È nell'Ideologia tedesca, scritta in collaborazione con Engels nel 1845-46 (ma pubblicata postuma nel 1932), che trova le sue basi il materialismo storico marxiano, ossia una concezione che afferma la dipendenza di ogni fattore coscienziale (le sovrastrutture ideologiche, religiose, politiche) dalle strutture economiche e dalle condizioni materiali nelle quali gli uomini riproducono, nelle varie epoche, la loro esistenza.
    Espulso dalla Francia nel 1845, Marx si stabilì a Bruxelles dove organizzò una rete internazionale di gruppi rivoluzionari definiti "comitati di corrispondenza comunista". Continua nel frattempo l'impegno teorico: del 1847 è la Miseria della filosofia, in cui Marx polemizza con le dottrine economiche di Pierre-Joseph Proudhon e in generale dell'economia borghese. Nello stesso anno la Lega dei comunisti chiese a Marx e a Engels di formulare un manifesto di principi del comunismo; nacque così il Manifesto del Partito comunista, pubblicato nel gennaio del 1848, alla vigilia dei moti insurrezionali che sconvolsero l'Europa. Nella sezione centrale del Manifesto Marx articola nuovamente la teoria del materialismo storico, che individua nel sistema economico dominante di ogni epoca ciò che determina la forma di organizzazione sociale e la configurazione storica e politica dell'epoca stessa; inoltre il Manifesto evidenzia la nozione di lotta di classe come processo dialettico che plasma il corso della storia. Da queste premesse teoriche Marx concluse che, nell'epoca dominata dalla forma di produzione capitalista, la classe dei capitalisti sarebbe stata eliminata da una rivoluzione organizzata dal proletariato, che avrebbe "abbattuto" la società esistente per costituire una società senza classi.
    Dopo la pubblicazione del Manifesto scoppiarono le rivoluzioni in Francia e in Germania: il governo belga, temendo l'avanzata dell'onda rivoluzionaria, bandì Marx, che tornò a Parigi e poi nuovamente a Colonia, dove fondò e diresse il periodico comunista "Neue Rheinische Zeitung" (Nuova gazzetta renana) e si dedicò all'attivismo politico. Nel 1849 fu arrestato e processato con l'accusa di incitamento all'insurrezione armata; fu assolto, ma costretto a lasciare il paese e a chiudere il giornale. Nel medesimo anno venne nuovamente espulso dalla Francia; si trasferì quindi a Londra, dove rimase fino alla morte. In Inghilterra Marx collaborò con quotidiani sia europei sia americani, come il "New York Tribune", con articoli sugli eventi politici e sociali, e scrisse Il Capitale (vol. 1, 1867; voll. 2 e 3, a cura di Engels e pubblicati postumi nel 1885 e 1894), un'analisi sistematica e storica dei meccanismi di produzione e di distribuzione della ricchezza entro il sistema capitalistico, effettuata con l'intento di enuclearne le contraddizioni e di individuare le tendenze economiche che conducono al superamento di questo sistema. In questa opera Marx presenta la teoria dello sfruttamento della classe operaia da parte dei capitalisti: questi ultimi pagherebbero agli operai solo una parte del valore prodotto nel ciclo di produzione delle merci, realizzando un "plusvalore" frutto del "pluslavoro" estorto all'operaio.
    Dopo la scioglimento della Lega dei comunisti nel 1852, Marx mantenne i contatti con centinaia di rivoluzionari con i quali fondò a Londra nel 1864 l'Associazione internazionale dei lavoratori (la Prima internazionale; vedi Internazionale socialista), di cui tenne il discorso inaugurale, redasse lo statuto e diresse il consiglio generale. Nel 1871 pubblicò La guerra civile in Francia (1871), in cui analizzò l'esperienza della Comune di Parigi - il governo rivoluzionario istituito a Parigi durante la guerra franco-prussiana - interpretando questa esperienza come una conferma storica della necessità per i lavoratori di impadronirsi del potere politico con un'insurrezione armata e distruggere poi lo stato capitalistico. Queste idee sono presentate anche nella Critica del programma di Gotha (1875). La fortuna delle dottrine di Marx si accrebbe dopo la sua morte con l'affermarsi del movimento operaio e la nascita di una delle principali correnti del pensiero contemporaneo, il marxismo. La sua analisi dell'economia capitalista e la sua teoria del materialismo storico, della lotta di classe e del plusvalore sono alle fondamenta del socialismo moderno. Rilevanti rispetto all'azione rivoluzionaria sono le teorie dello stato capitalista e della dittatura del proletariato, riprese in seguito da Lenin. Queste idee costituirono il cuore del bolscevismo e della Terza internazionale.


    Marginalismo Scuola di pensiero che analizza i fenomeni economici basandosi sugli effetti delle variazioni marginali delle grandezze economiche esaminate, allo scopo di determinare le condizioni di massimizzazione dei risultati delle attività economiche; per i marginalisti il compito fondamentale dell'economia è appunto quello di determinare tali condizioni. Il principio marginalista è stato applicato inizialmente alla sfera del consumo, soprattutto da Jevons e Menger, secondo i quali l'utilità marginale di un bene, ossia la soddisfazione che l'ultima dose consumata di un bene può arrecare al consumatore, misura l'utilità di tutte le dosi disponibili e determina il valore (soggettivo) e la domanda del consumatore. Poste tali premesse, il consumatore massimizza la soddisfazione che può ottenere dal proprio reddito, se lo ripartisce in modo che l'utilità marginale arrecatagli dalle varie unità marginali (ossia dalle ultime unità) di spesa sia la stessa per tutti i beni fra i quali ripartisce il proprio reddito; ossia, la soddisfazione arrecata dall'ultima lira spesa nel consumo del bene A deve essere uguale alla soddisfazione arrecata dall'ultima lira spesa nel bene B, e così via per tutti i beni del suo paniere; se tale uguaglianza non fosse raggiunta, ad esempio, se l'ultima lira spesa nel bene A desse ancora una soddisfazione doppia dell'ultima lira spesa nel bene B, al consumatore converrebbe incrementare l'acquisto del bene A e ridurre quello del bene B fino a raggiungere l'uguaglianza postulata. Dal campo del consumo l'analisi marginalista è stata poi estesa a varie altre sfere dell'economia, e in particolare a quella della produzione, dove, secondo tale teoria, l'impresa impiega i fattori produttivi (lavoro e capitale) fino al punto in cui, mantenendo invariata la quantità impiegata di capitale, l'incremento di prodotto ottenuto dall'ultima unità impiegata di un fattore (ad esempio, l'ultimo lavoratore) uguaglia il costo di quel fattore (nell'esempio del lavoratore, il salario). Le variazioni marginali del prodotto, ottenute applicando l'ultima unità di un determinato fattore (mantenendo invariata la quantità di tutti gli altri), vengono interpretate come una misura della produttività marginale del fattore in questione. L'analisi marginale rappresenta un'applicazione diretta del metodo della massimizzazione proprio del calcolo differenziale (vedi Calcolo infinitesimale). Sul piano più propriamente teorico, i tentativi di generalizzare la situazione di ottimo individuale all'intera società, pervenendo a una nozione di ottimo sociale su cui fondare una teoria del benessere, si è imbattuta in gravi difficoltà: da un lato appare problematico aggregare, sommandole fra loro, le soddisfazioni soggettive (che il marginalismo fonda sulle sensazioni di piacere e di pena) di tutti gli individui di una società; dall'altro, i marginalisti si limitano a ottimizzare la situazione uguagliando le utilità marginali all'interno della sfera di ciascun individuo (effettuando cioè esclusivamente "comparazioni intrapersonali" di utilità); di fatto, però, le grandi differenze fra le disponibilità individuali di reddito determinano forti disuguaglianze fra le utilità marginali dei redditi dei diversi individui, cosicché sarebbe teoricamente possibile massimizzare l'utilità ottenibile dal volume totale del reddito di una società ridistribuendolo in modo da assegnarne una maggiore quantità agli individui per i quali la sua utilità marginale è più alta, e cioè ai membri più bisognosi e più deboli della società. L'ottimizzazione definita dai marginalisti ha quindi luogo all'interno del sistema di distribuzione dato, il che ha esposto questa teoria all'accusa, molto diffusa, di essere uno strumento di difesa e conservazione dello stato di cose esistente.


    John Maynard Keynes (Cambridge 1883 - Firle Beacon, Sussex 1946), economista inglese. Compiuti gli studi di matematica ed economia presso la Cambridge University, iniziò la carriera come funzionario dell'amministrazione britannica in India; in seguito, durante la prima guerra mondiale, lavorò per il ministero del Tesoro, che rappresentò alla Conferenza di pace di Parigi del 1919. In disaccordo con le riparazioni di guerra imposte dal trattato di Versailles alle nazioni sconfitte, rinunciò all'incarico e, nell'opera Le conseguenze economiche della pace (1919), predisse correttamente che i pesanti risarcimenti imposti alla Germania avrebbero stimolato una ripresa del nazionalismo tedesco. Nel decennio successivo fece fortuna speculando sui cambi e insegnò a Cambridge, dove scrisse il Trattato della probabilità (1921), un'opera dedicata alla teoria matematica della probabilità, e il Trattato della moneta (1930), in cui cercò di spiegare il comportamento irregolare dei sistemi economici, con i loro frequenti cicli di espansione e depressione. Come altre ricerche sul tema, il Trattato della moneta non riuscì però a spiegare il problema della depressione prolungata; tale fenomeno non si conformava alla teoria, allora generalmente accettata, secondo cui esiste un meccanismo autocorrettivo interno alle recessioni; si riteneva infatti che durante le recessioni si accumulassero dei risparmi, e che questi provocassero il calo dei tassi d'interesse, incoraggiando in tal modo gli investimenti e avviando la ripresa dell'economia. Il problema della depressione prolungata fu affrontato da Keynes in Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (1936). Quest'opera, che fornì un sostegno teorico a programmi di risanamento già avviati sia in Gran Bretagna sia negli Stati Uniti dal presidente Franklin Delano Roosevelt, dimostrò che non esisteva un meccanismo di autocorrezione in grado di risollevare dalla depressione un sistema economico; Keynes affermò inoltre che i risparmi inutilizzati prolungano la stagnazione economica e che l'investimento delle imprese può essere stimolato da nuove invenzioni, nuovi mercati e altri fattori indipendenti dal tasso di interesse sui risparmi. Dato che l'investimento delle imprese doveva necessariamente fluttuare, non vi si poteva tuttavia fare affidamento per mantenere un alto livello di occupazione e uno stabile flusso di reddito nell'economia: Keynes sostenne allora che durante le recessioni tocca alla spesa pubblica compensare l'insufficienza degli investimenti. Dopo l'ingresso della Gran Bretagna nella seconda guerra mondiale, Keynes pubblicò Come finanziare la guerra (1940), in cui sostenne che una parte di ogni salario dovrebbe essere automaticamente investita in obbligazioni pubbliche. Nel 1944 guidò la delegazione britannica alla Conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni Unite, da cui scaturirono gli accordi di Bretton Woods. Le teorie di Keynes hanno influenzato profondamente le politiche economiche di molti governi sin dalla seconda guerra mondiale, dando origine alla scuola keynesiana di economia.

    L’economia keynesiana L’opera più importante di Keynes, la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (1936), fu pubblicata in un periodo di recessione profonda, apparentemente senza fine: negli anni Venti, il tasso di disoccupazione nel Regno Unito aveva registrato una media pari all'11% e nella prima metà degli anni Trenta raggiunse mediamente quasi il 20%. Al contrario della teoria economica classica, Keynes sosteneva che l'andamento dell'economia dipende dalle differenti politiche governative che vengono attuate in ogni singolo paese. Teoria economica classica. Secondo la teoria economica classica la piena occupazione rappresenta la condizione di equilibrio verso cui l'intera economia tende in maniera naturale. I cambiamenti tecnologici o quelli che si verificano nelle preferenze dei consumatori, così come l'apertura di nuovi mercati interni o esteri, possono comportare la perdita di posti di lavoro in alcune industrie, ma contemporaneamente determinano la creazione di nuove opportunità in altri ambiti del sistema economico. Inoltre, la disoccupazione ha carattere provvisorio, in quanto viene rapidamente eliminata dall'azione delle forze di mercato, e in particolare dalla flessibilità dei salari. Secondo questa teoria la disoccupazione cronica è "volontaria": ciò significa che gli individui non hanno lavoro perché pretendono salari eccessivi, mentre sarebbero perfettamente in grado di trovare un'occupazione se decidessero di accettare una retribuzione inferiore. Teoria di Keynes. La differenza fondamentale tra il modello keynesiano e quello classico consiste nel fatto che Keynes sosteneva l'inflessibilità di salari e prezzi. In altri termini, il sistema economico non tende automaticamente verso una situazione di piena occupazione, e, dunque, per combattere la recessione non si può fare affidamento sulle forze di mercato. Supponiamo, ad esempio, che inizialmente vi sia piena occupazione e che, per qualche ragione, gli imprenditori decidano di ridurre i propri investimenti in macchinari: questa scelta provocherà un aumento del numero di disoccupati nel settore che produce macchinari, e questi disoccupati saranno costretti a contrarre i propri consumi, determinando a loro volta una riduzione dei posti di lavoro nel settore dei beni di consumo; questo effetto di "moltiplicatore" determina un calo del livello di occupazione, reddito e prodotto dell'economia. Secondo Keynes non esistono forze in grado di interrompere questa fase negativa del ciclo economico in maniera autonoma, ossia senza l'intervento dello stato. I tagli salariali non servono giacché, sebbene riducano i costi per le aziende, riducono anche ciò che i lavoratori possono acquistare, cosicché le vendite non potranno aumentare. Un elevato livello di disoccupazione, dunque, viene provocato da una forte contrazione della domanda (ossia, della spesa) aggregata. Soltanto l'intervento governativo è in grado di ricondurre l'economia al livello di piena occupazione, attraverso la riduzione dell'imposizione fiscale o l'aumento della spesa pubblica (anche se questo provocherà un deficit nel bilancio pubblico per un certo periodo di tempo). In breve, il governo ha la responsabilità di stimolare la domanda aggregata nella misura in cui questo intervento si renda necessario per creare e mantenere la piena occupazione, senza d'altra parte generare una spirale inflazionistica. Politiche keynesiane. Il governo cerca di valutare l'andamento della domanda aggregata previsto nell'arco temporale di un paio d'anni; di fronte a un livello molto basso della stessa (come nel Regno Unito nel 1952, 1958 e 1971), il governo determina un incremento della spesa pubblica oppure una riduzione dell'imposizione fiscale o dei tassi di interesse; viceversa se la domanda aggregata risulta essere troppo elevata (come nel 1941, 1955, e nel 1973) il governo farà il contrario. In passato gli effetti prodotti sul bilancio pubblico erano considerati di secondaria importanza, mentre l'obiettivo principale era quello di stimolare la crescita della domanda aggregata in modo da mantenerla allineata alla capacità produttiva dell'economia. Politiche di questo tipo furono realizzate dalla maggior parte dei paesi industrializzati: ad esempio, il presidente statunitense John F. Kennedy, riferendosi al modello keynesiano, adottò scelte di politica economica che aiutarono il suo paese a uscire dalla recessione dei primi anni Sessanta. Inflazione e monetarismo. A partire dagli inizi degli anni Settanta, la teoria keynesiana venne attaccata da una nuova dottrina economica: il monetarismo. Nella maggior parte dei paesi sviluppati il quarto di secolo successivo alla seconda guerra mondiale era stato caratterizzato, da un lato, da piena occupazione e dal miglioramento del tenore di vita, e, dall'altro, da un considerevole livello di inflazione. Gli economisti ispirati al modello keynesiano avevano riconosciuto da tempo la difficoltà di mantenere stabile il livello dei prezzi in una situazione di piena occupazione se i sindacati possono chiedere, e le imprese concedere, qualsiasi aumento salariale. Tra la fine degli anni Quaranta e la metà degli anni Settanta furono attuate un po' in tutti i paesi più sviluppati diverse politiche dei redditi destinate a ridurre la dimensione degli incrementi di salari e prezzi. Queste politiche finirono col rivelarsi comunque insufficienti e a partire dalla fine degli anni Sessanta iniziarono a registrarsi allarmanti accelerazioni del tasso d'inflazione. Secondo i monetaristi, l'accelerazione dell'inflazione viene provocata dalle politiche keynesiane che cercano di mantenere il tasso di disoccupazione a un livello eccessivamente basso, addirittura inferiore a quello "naturale" in corrispondenza del quale il sistema economico tende a stabilizzarsi. L'unico strumento efficace per ridurre la disoccupazione consiste, dunque, nell'adozione di politiche dal lato dell'offerta che mirano a ridurre il tasso naturale di disoccupazione. A partire dalla fine degli anni Settanta la dottrina monetarista prese il posto di quella keynesiana, anche se la gravità delle recessioni economiche verificatesi in tutto il mondo tra i primi anni Ottanta e l'inizio di quelli Novanta dimostra la validità di fondo del pensiero di Keynes.


    Joseph Alois Schumpeter (Triesch, Moravia 1883 - Salisbury, Connecticut 1950), economista austriaco, fu professore di economia presso le università di Vienna, Czernowitz (ora Chernivtsi in Russia), Graz e Bonn. Nel 1932 si trasferì alla Harvard University dove insegnò economia politica fino al 1950. Fu un convinto assertore della fondamentale importanza economica dell'imprenditore, di cui sottolineò la funzione di stimolo all'investimento e all'innovazione, elementi che determinano l'ascesa o il declino della prosperità. Teorizzò inoltre l'autodistruzione del capitalismo, un sistema a suo parere destinato a subire le conseguenze dei propri successi. Fra le sue opere si ricordano: Teoria dello sviluppo economico (1911), Cicli economici (1939), Capitalismo, socialismo e democrazia (1942) e Storia dell'analisi economica, pubblicato postumo nel 1954.
     
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    parliamo un po' dell'inflazione...

    Nel suo significato più generale, il termine inflazione sta ad indicare l’aumento persistente del livello generale dei prezzi e la conseguente diminuzione del potere di acquisto della moneta. Tale fenomeno coinvolge tutti i meccanismi dell’economia di una nazione e le condizioni di vita dei suoi abitanti; ed inoltre, se assume proporzioni notevoli, causa sovente danni allo sviluppo creando del malessere nella società.
    Il tasso di inflazione è l’aumento annuo percentuale di un livello generale di prezzi, misurato comunemente dall’indice dei prezzi al consumo o da qualche analogo indice dei prezzi. L’iperinflazione è un inflazione così grave, pari a 1000%, 1.000.000% o persino 1.000.000.000% annuo, che la gente tenta di liberarsi del proprio denaro prima che i prezzi siano saliti ulteriormente rendendo il denaro privo di valore. L’inflazione galoppante è un tasso di inflazione pari al 50-200% annuo. L’inflazione moderata è un aumento del livello dei prezzi che non distorce gravemente i prezzi o i redditi relativi.

    La curva di Phillips è uno strumento per mostrare come l’inflazione inerziale e gli shock influenzano il sistema economico. Nel breve periodo, il sistema economico ha una possibilità di “permuta” fra disoccupazione e inflazione, derivante da una relazione inversa tra queste due grandezze. Supponiamo che, in un dato anno, il tasso inerziale di inflazione sia il 4% e che il tasso naturale di disoccupazione sia il 6%. Allora, se la disoccupazione scende al disotto del tasso naturale, l’inflazione sale al disopra del tasso inerziale, ad un tasso di inflazione del 5% o 6% o più. Analogamente, se la disoccupazione sale al disopra del tasso naturale (come ha fatto negli USA nel periodo ’80-’84), l’inflazione tende a scendere al disotto del tasso inerziale.

    Ma le possibilità di scelta non rimangono invariate. Se l’inflazione persiste al disopra o al disotto del tasso inerziale incorporato, allora le aspettative della gente cambiano e cambia lo stesso tasso inerziale di inflazione. Oggi è opinione generale che il tasso inerziale di inflazione si adatterà interamente alla mutevole esperienza storica e perciò non c’è una permanente relazione inversa tra disoccupazione e inflazione. Se i politici tentano di mantenere il tasso di disoccupazione al disotto del tasso naturale per un lungo periodo, l’inflazione cresce vertiginosamente. Perciò la curva di Phillips di lungo periodo tende ad essere verticale.

    Un problema fondamentale per i politici è conoscere l’entità del danno che si deve arrecare alla produzione e all’occupazione per ridurre una refrattaria inflazione incorporata, cioè quali siano i costi della disinflazione: tali costi si sono rivelati essere una profonda recessione. Un costo così grande fa esitare chi prende in considerazione la possibilità di indurre una recessione per contenere una moderata inflazione.
    Poiché la riduzione dell’inflazione attraverso le recessioni implica costi così alti, le nazioni sono spesso ricorse ad altri metodi, e cioè a politiche dei redditi come i controlli dei salari e dei prezzi e i criteri-guida indicativi. Molti ricorrerebbero a un’intensificazione delle forze di mercato. Un metodo più recente è quello delle politiche dei redditi basate sulle imposte che userebbero il sistema fiscale per scoraggiare l’inflazione, all’incirca come oggi si applicano imposte indirette per ridurre il consumo di alcool o tabacco.

    Gli strumenti di politica economica adatti per il controllo dell’inflazione sono vari e diversi a secondo del tipo di inflazione.

    Quando l’inflazione è determinata da un aumento eccessivo della quantità di moneta il rimedio consiste nel ridurne l’espansione. Tale provvedimento ha però conseguenze politico-sociali (es. tagli alle spese, stipendi statali ecc.)

    Nel caso di una situazione di inflazione da domanda gli strumenti tradizionali sono la politica monetaria, la politica fiscale e la riduzione della spesa pubblica. Tuttavia gli inasprimenti fiscali sono poco graditi agli elettori e alcune spese pubbliche sono incomprimibili: in tal caso i governi ricorrono al contenimento dell’eccesso di domanda di moneta mediante la manovra restrittiva della liquidità. L’offerta di moneta e di credito può essere ristretta con la politica monetaria attraverso tre tipi principali di strumenti: il primo consiste nell’aumentare la quota di riserve obbligatorie presso la banca centrale; il secondo nell’aumentare il tasso di sconto; infine, il terzo tipo, nella vendita di titoli governativi da parte della banca centrale.

    Diverse sono le politiche rivolte al controllo dell’inflazione dovute ad una spinta autonoma dei costi. Nel caso di aumenti salariali in misura maggiore della produttività del lavoro, che procuri processi inflazionistici, è considerata come una possibile via di soluzione la politica dei redditi. Essa consiste in un accordo (patto sociale) fra le parti sociali.
     
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  5. Vendicator
     
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    CITAZIONE (x2x @ 7/10/2011, 15:42) 
    parliamo un po' dell'inflazione...

    Nel suo significato più generale, il termine inflazione sta ad indicare l’aumento persistente del livello generale dei prezzi e la conseguente diminuzione del potere di acquisto della moneta. Tale fenomeno coinvolge tutti i meccanismi dell’economia di una nazione e le condizioni di vita dei suoi abitanti; ed inoltre, se assume proporzioni notevoli, causa sovente danni allo sviluppo creando del malessere nella società.
    Il tasso di inflazione è l’aumento annuo percentuale di un livello generale di prezzi, misurato comunemente dall’indice dei prezzi al consumo o da qualche analogo indice dei prezzi. L’iperinflazione è un inflazione così grave, pari a 1000%, 1.000.000% o persino 1.000.000.000% annuo, che la gente tenta di liberarsi del proprio denaro prima che i prezzi siano saliti ulteriormente rendendo il denaro privo di valore. L’inflazione galoppante è un tasso di inflazione pari al 50-200% annuo. L’inflazione moderata è un aumento del livello dei prezzi che non distorce gravemente i prezzi o i redditi relativi.

    La curva di Phillips è uno strumento per mostrare come l’inflazione inerziale e gli shock influenzano il sistema economico. Nel breve periodo, il sistema economico ha una possibilità di “permuta” fra disoccupazione e inflazione, derivante da una relazione inversa tra queste due grandezze. Supponiamo che, in un dato anno, il tasso inerziale di inflazione sia il 4% e che il tasso naturale di disoccupazione sia il 6%. Allora, se la disoccupazione scende al disotto del tasso naturale, l’inflazione sale al disopra del tasso inerziale, ad un tasso di inflazione del 5% o 6% o più. Analogamente, se la disoccupazione sale al disopra del tasso naturale (come ha fatto negli USA nel periodo ’80-’84), l’inflazione tende a scendere al disotto del tasso inerziale.

    Ma le possibilità di scelta non rimangono invariate. Se l’inflazione persiste al disopra o al disotto del tasso inerziale incorporato, allora le aspettative della gente cambiano e cambia lo stesso tasso inerziale di inflazione. Oggi è opinione generale che il tasso inerziale di inflazione si adatterà interamente alla mutevole esperienza storica e perciò non c’è una permanente relazione inversa tra disoccupazione e inflazione. Se i politici tentano di mantenere il tasso di disoccupazione al disotto del tasso naturale per un lungo periodo, l’inflazione cresce vertiginosamente. Perciò la curva di Phillips di lungo periodo tende ad essere verticale.

    Un problema fondamentale per i politici è conoscere l’entità del danno che si deve arrecare alla produzione e all’occupazione per ridurre una refrattaria inflazione incorporata, cioè quali siano i costi della disinflazione: tali costi si sono rivelati essere una profonda recessione. Un costo così grande fa esitare chi prende in considerazione la possibilità di indurre una recessione per contenere una moderata inflazione.
    Poiché la riduzione dell’inflazione attraverso le recessioni implica costi così alti, le nazioni sono spesso ricorse ad altri metodi, e cioè a politiche dei redditi come i controlli dei salari e dei prezzi e i criteri-guida indicativi. Molti ricorrerebbero a un’intensificazione delle forze di mercato. Un metodo più recente è quello delle politiche dei redditi basate sulle imposte che userebbero il sistema fiscale per scoraggiare l’inflazione, all’incirca come oggi si applicano imposte indirette per ridurre il consumo di alcool o tabacco.

    Gli strumenti di politica economica adatti per il controllo dell’inflazione sono vari e diversi a secondo del tipo di inflazione.

    Quando l’inflazione è determinata da un aumento eccessivo della quantità di moneta il rimedio consiste nel ridurne l’espansione. Tale provvedimento ha però conseguenze politico-sociali (es. tagli alle spese, stipendi statali ecc.)

    Nel caso di una situazione di inflazione da domanda gli strumenti tradizionali sono la politica monetaria, la politica fiscale e la riduzione della spesa pubblica. Tuttavia gli inasprimenti fiscali sono poco graditi agli elettori e alcune spese pubbliche sono incomprimibili: in tal caso i governi ricorrono al contenimento dell’eccesso di domanda di moneta mediante la manovra restrittiva della liquidità. L’offerta di moneta e di credito può essere ristretta con la politica monetaria attraverso tre tipi principali di strumenti: il primo consiste nell’aumentare la quota di riserve obbligatorie presso la banca centrale; il secondo nell’aumentare il tasso di sconto; infine, il terzo tipo, nella vendita di titoli governativi da parte della banca centrale.

    Diverse sono le politiche rivolte al controllo dell’inflazione dovute ad una spinta autonoma dei costi. Nel caso di aumenti salariali in misura maggiore della produttività del lavoro, che procuri processi inflazionistici, è considerata come una possibile via di soluzione la politica dei redditi. Essa consiste in un accordo (patto sociale) fra le parti sociali.

    perchè non parliamo anche di disintegrazione?
     
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4 replies since 5/10/2011, 19:48   408 views
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